La vendita al dettaglio di beni alimentari e la somministrazione degli stessi, rappresentano due distinte attività economiche, che possono tuttavia coesistere all’interno della stessa struttura. Il fatto che un esercizio commerciale le svolga entrambe, non annulla che stia espletando due diverse attività economiche, soggette a diverse normative regolatrici.
Da punto di vista fiscale, la differenziazione assume particolare rilevanza in termini di aliquote IVA, in quanto per la somministrazione di alimenti e bevande è prevista una aliquota unica del 10%, mentre per la cessione di beni (in generale, e nello specifico di quelli alimentari) si applica la specifica aliquota IVA prevista per lo specifico prodotto.
Una questione come questa, che finora è stata considerata pacifica, nel 2020 assume connotati di particolarità: gli operatori del comparto della ristorazione, in un contesto di normalità abituati a espletare attività di somministrazione (ed applicare la relativa aliquota agevolata del 10%), nella situazione straordinaria attuale hanno visto la propria attività limitata alla vendita tramite asporto e consegna a domicilio, con il rischio concreto di non applicare le corrette aliquote IVA. Il problema è riassumibile nella domanda: l’asporto e la consegna a domicilio costituiscono somministrazione o cessione di beni alimentari?
In base alla normativa IVA italiana e ai chiarimenti di prassi, l’asporto e la vendita a domicilio di alimenti e bevande non potrebbero essere considerati somministrazione, in quanto, quest’ultima, costituisce una prestazione di servizi nella quale la componente accessoria aggiuntiva del consumo in loco delle pietanze, costituirebbe una componente fondamentale per la sua qualificazione. Di conseguenza i ristoratori, già colpiti dalle restrizioni di contenimento sanitario, sarebbero costretti ad applicare le aliquote specifiche previste per i singoli prodotti, con rilevanze, oltre che di tipo economico, a causa di una ipotesi di maggiore imposta, anche di tipo pratico, a causa delle difficoltà intrinseche alla chiara qualificazione di pietanze complesse composte da più elementi.
In una recente interrogazione parlamentare in Commissione finanze, l’esecutivo, attraverso le parole di uno dei sottosegretari del MEF (Ministero dell’Economia e delle Finanze), aveva rassicurato gli interpellanti che essendo possibile considerare l’asporto e la consegna a domicilio come delle modalità integrative di svolgimento dell’attività di ristorazione, in un contesto di restrizione all’attività principale causata dell’emergenza sanitaria in corso, queste “possono” godere dell’aliquota ridotta del 10%, prevista per la somministrazione, rimandando, a sostegno della propria tesi, alla normativa europea sul tema. La risposta dell’esecutivo rappresentava l’indicazione di una possibilità che, in mancanza di nuove norme specifiche in merito, non poteva essere una garanzia sufficiente per i ristoratori.
Da parte del MEF purtroppo non sono arrivate ulteriori indicazioni ufficiali, ma è arrivato, invece, il parere dell’Agenzia delle Entrate che, rispondendo all’Interpello n.581 del 14 dicembre 2020, espone il proprio punto di vista sull’argomento. Il parere della prassi, sulla questione, non è trascurabile, sia perché arriva in un documento ufficiale, a differenza di quello del ministero, sia perché le verifiche fiscali e il contenzioso tributario hanno questa come parte contrapposta al contribuente.
L’Agenzia delle Entrate viene interpellata in merito alla possibilità di inquadrare come somministrazione di alimenti e bevande, la vendita di questi tramite asporto, nel caso in cui venga utilizzata una applicazione internet che raccolga l’ordinativo del cliente, lo trasmetta in cucina e in generale gestisca il ciclo operativo. Secondo la società, l’utilizzo di una così fatta applicazione potrebbe essere sufficiente a inquadrare la coesistenza, di prestazioni di fare e di dare, necessaria e sufficiente a qualificare la cessione come somministrazione di alimenti e bevande.
Di diverso avviso è l’Agenzia delle Entrate, la quale ribadisce che le vendite tramite asporto “sono considerate a tutti gli effetti cessioni di beni, in virtù del prevalente obbligo di dare”. A sostegno della propria tesi porta le indicazioni rese dalla Corte di giustizia in alcune sentenze e specialmente il disposto dall’articolo 6 del Regolamento UE n. 282/2011, secondo il quale la ristorazione (e il catering) è una prestazione di servizi di cui la cessione costituisce solo una parte.
Quindi, in definitiva, secondo l’Agenzia delle Entrate, “la sola fornitura di cibi e bevande nell’ambito dei servizi di ristorazione è considerata dal diritto comunitario, così come dalla prassi interna dell’Amministrazione finanziaria, una cessione di beni”, infatti “la principale componente di servizi accessori che può risultare dirimente per la qualificazione dell’operazione, come somministrazione di alimenti e bevande, sembrerebbe essere la possibilità di consumare presso il ristorante i prodotti acquistati, […]. In assenza di detto elemento e di ulteriori servizi aggiuntivi, infatti, l’operazione economica sembrerebbe configurare una vendita di beni da asporto. Di fatto, nell’ipotesi in cui gli alimenti e/o le bevande acquistate […] non vengano consumate presso il ristorante, prevalendo il carattere di asporto, costituiranno cessioni autonome di beni”, alle quali dovranno essere applicate le aliquote IVA previste per gli specifici beni venduti.
Riassumendo la questione appare ancora più semplice di come è stata esposta: in base alla normativa italiana ed alla prassi, la vendita di alimenti e bevande tramite asporto e consegna a domicilio, mancando del requisito del consumo in loco, non può essere considerata somministrazione: motivo per cui i ristoratori non potrebbero legittimamente utilizzare l’aliquota unica agevolata del 10%.
L’esecutivo, attraverso i vertici del MEF, ha asserito, oralmente, che in base alla normativa europea, nel contesto straordinario del 2020, l’asporto e la consegna a domicilio possono essere considerate attività accessorie alla somministrazione; senza però fare seguire alle parole un intervento normativo sul tema.
L’Agenzia delle Entrate, proprio portando a sostegno della propria tesi norme e sentenze europee, di fatto qualifica tali fattispecie come cessioni di beni.